Monografie – No. 31Gesù di Nazareth e la comunicazioneImmagini e parole
a cura di Ernesto Borghi
contributi di
Stefania De Vito – Stefano Zuffi – Claudio Laim Gaëlle Courtens – Francesco Muratori
Introduzione
Gesù, autentico comunicatore
di Stefania De Vito
La questione della comunicazione pare essere oggi ad appannag- gio, quasi esclusivo, delle più moderne scienze mediatiche. Essa, poi, è esplosa con tutta la sua “irruenza” nell’ultimo anno, quando le reti te- lematiche sono risultate indispensabili per il mantenimento di contatti “para-antropologici” durante la pandemia ancora in corso. A partire da questa data, e con le nuove esperienze lavorative, didattiche, liturgiche, pastorali e catechetiche mediate dalle varie piattaforme digitali presenti sul mercato, è sorto un acceso dibattito a riguardo della veridicità, della comunicazione e della comunicabilità di questi strumenti.
Siamo ancora coinvolti da quest’onda e, quindi, non è possibile dare una risposta risolutiva a questi interrogativi. L’importante spinta offerta dallo stato di emergenza che stiamo attraversando, ci aiuta a com- prendere che il tema della comunicazione non nasce nell’era moderna né negli avvenimenti del Covid-19. Si tratta, infatti, di un aspetto della socialità, che, a partire da tempi lontanissimi, ha permesso il costituirsi di agglomerati urbani, la nascita del linguaggio, l’evoluzione della civiltà e della cultura, la nascita della filosofia e delle scienze. Tutto questo può considerarsi come un esercizio concreto di antropologia.
“Questa è la stessa conclusione a cui è giunto H.M. McLuhan che, afferma: «L’uomo non è una creatura sulla terra che ha un linguaggio, l’uomo è linguaggio».
In tale orizzonte, proviamo a chiederci: Gesù può considerarsi un maestro della comunicazione? Che cosa impariamo da lui circa le esigenze e le modalità comunicative? Indubbiamente, almeno stando alle fonti cartacee a disposizione, non ha elaborato tecniche e teorie della comunicazione. Il suo nome non si trova nei manuali ad esse dedicate. Ciononostante, per quanto possiamo leggere nelle Scritture neo-testamentarie e in altri testi al di fuori di esse, è, certamente “il” maestro della comunicazione. Ha permesso, infatti, la nascita di una “nuova” comunità, la Chiesa, costruita su “nuovi” valori ed ideali, ha realizzato fortemente l’umanità, consentendone il progresso nella linea della moralità e dell’esperienza religiosa. Da questo esercizio singolare della comunicazione è sorta, per molti versi, la riflessione teologica, con il compito di conservare i contenuti e le prassi comunicative di Gesù e di renderli ancora attuali, nei tempi moderni.
Per poter affermare che Gesù è un maestro comunicatore, occorre anche accordarsi sull’idea di comunicazione. A partire dagli inizi del Novecento, si è risvegliato un certo interesse per il linguaggio. Sono sorte diverse riflessioni intorno alla questione linguistica: dopo aver abbandonato una visione estetica del linguaggio, si è abbracciata una prospettiva di tipo strumentale. Essa ha ridotto l’espressione linguistica a puro canale “informativo”.
A partire dalla metà del Novecento, questa dimensione si è aperta alla domanda sulla “comunicazione”: quando un testo si può considerare veramente comunicativo? Alcune risposte, provengono dal mondo d’ispi- razione non religiosa e, ad esempio, da Umberto Eco e dalla psicopatolo- gia del linguaggio. Questa complicata riflessione rimane aperta e in lenta evoluzione. Possiamo, però, riportare sinteticamente una prospettiva del semiologo italiano appena citato: ogni testo è “comunicativo”, se è in- tessuto di “attenzione alla vita”. La comunicazione, infatti, non ha solo a che fare con parole ben costruite secondo la logica della grammatica, della sintassi e della retorica. Un testo “funziona” come comunicativo, se esce fuori dai limiti di un parlare “egoistico” e “solitario”, se prevede e coinvolge il suo lettore, chiedendogli non solo di ricevere contenuti, ma di “farli funzionare”, attualizzandoli. L’elemento fondamentale non sono le cose da dire, ma il ponte relazionale, “cor ad cor loquitur” (= cuore parla a cuore), quel contatto che passa attraverso parole e che sopravvive al di là di esse.
Anche McLuhan assume una posizione molto simile a quella de- scritta: «La cultura manoscritta è dialogica, se non altro perché lo scritto- re e il suo pubblico sono fisicamente uniti dalla forma della pubblicazione come rappresentazione».
Dal “che cosa” si intende per un testo comunicativo, possiamo passare ad una più generale riflessione sulla comunicazione. Essa si realizza ogniqualvolta mettiamo in atto prassi di “attenzione alla vita”. Queste ultime prevedono la consapevolezza della presenza di un “altro” diverso da me, un necessario e autentico rispetto di questa diversità e il desiderio di creare un ponte relazionale, per poterla realizzare. Questi tre ingredienti favoriscono una creatività antropologica che investe il comunicatore e colui che partecipa al gioco comunicativo. Essa per- mette all’uomo di nascere come uomo e di realizzare pienamente la sua dignità relazionale.
Questi pensieri non ci portano lontano dall’auto-ritratto di Gesù come autentico comunicatore. Prestiamo attenzione ai primi capitoli del vangelo secondo Marco; ci confrontiamo con l’immagine di un Gesù che chiama i discepoli alla sequela, che legge e interpreta la Scrittura, che guarisce da malattie ed infermità, senza proferire grandi parole.
Ad esempio, nel brano di Mc 1,21-284, l’evangelista registra la re- azione incredula della folla in sinagoga, che riconosce l’autorevolezza del discorso di Gesù. Eppure, non c’è alcun riferimento ai contenuti di quell’insegnamento e alle parole da lui proferite. Anche negli altri brani, non c’è un gran parlare del Maestro. Nell’episodio della guarigione della suocera di Pietro (cfr. Mc 1,29-31), i discorsi indietreggiano davanti all’a- zione. Poco più di mezzo versetto, due verbi della prossimità (si accostò, la prese per mano) e il verbo della resurrezione e della rinascita (la sollevò).
Questo stesso tocco leggero della mano ritorna ancora nella guari- gione del cieco di Betsaida (cfr. Mc 8,22-26). Anche qui, la comunicazione linguistica è ridotta alla sola domanda Vedi qualcosa? (v. 23), sorretta da azioni: il portare il cieco fuori dal villaggio e il gesto “duplicato” dell’im- posizione delle mani permettono a Gesù di accorciare le distanze e creare quello spazio di relazione che permette la guarigione. La disamina dei racconti di guarigione è davvero breve, però ci permette di vedere le di- namiche comunicative di Gesù come un tocco leggero e non “invasivo”, che agevola la guarigione e la resurrezione a vita nuova.
L’approccio non cambia sensibilmente quando ci confrontiamo con i discorsi e le parabole di Gesù. Certamente, essi vedono un Maestro più loquace, ma anche il suo parlare riflette il tocco discreto del suo at- teggiamento. In Mc 8,14-21, dopo poco l’episodio della condivisione dei pani e dei pesci, Gesù ammonisce i discepoli circa il lievito dei farisei e di Erode, ma è costretto a riconoscere che la loro attenzione era rivolta al poco pane che questi avevano con sé nella barca. Eccolo il suo breve discorso, fondato su Ger 5,21 e Ez 12,2, intessuto di domande e nulla più.
L’essenzialità del suo parlare fa da eco all’accoglienza di risposte imperfette o mancate: è riconoscere lo spazio sacro dell’altro e stare alla soglia, fin quando questi non concede di entrare. L’impressione è che persino lo spazio “pieno di silenzio” dopo le domande non risposte, riveli l’apertura interiore di questo Gesù Maestro, che riconosce l’altro nella sua alterità e gli permette di nascere e crescere come attore della comunicazione. Costruisce strade su cui camminare, porta sulle sue spalle il carico dei “mattoni” della comunicazione, ma, poi, lascia liberi i destinatari vicini o lontani di collaborare con la sua comunicazione, di rispondere alle sue sollecitudini e di attualizzare il suo stile secondo le capacità di ognuno e “ognuno per la sua via” (cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen Gentium, n. 32).
Riprendendo il discorso degli “attori” della comunicazione, con- tinuiamo ad affermare che anche il destinatario della comunicazione deve nascere come destinatario (uditore o lettore che sia). Nel suo stile di comunicazione, Gesù fa proprio questo: consente a lettrici e lettori di nascere come suoi “destinatari” e di vivere responsabilmente come suoi interlocutori.
Così, avere in noi “lo stesso orientamento interiore di Cristo Gesù” (cfr. Fil 2,5) significa creare una sequela Christi nel suo modo di co- municare, più attento alla relazione che ai contenuti da affermare. E le immagini e le riflessioni che seguiranno, nelle prossime pagine di questo numero di “Parola&parole – monografie” intendono offrire, in modo vario e suggestivo, alcune occasioni per riflettere su che cosa sia la comunicazione che la figura di Gesù di Nazareth ha offerto e continua ad offrire alla cultura e alla vita di chiunque entri in rapporto con essa…
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