Decima domenica del Tempo Ordinario(anno A)
11 giugno 2023
Prima lettura
La prima lettura di oggi è una breve pagina del libro di Osea. Osea – il cui nome significa “Dio ha prestato soccorso” – è un profeta attivo tra gli anni 750 e 722, soprattutto nel regno del nord e nella città di Samaria[1].
Di questo profeta che viene letto raramente nelle liturgie domenicali, oggi ascolteremo alcuni versi del capitolo 6.
Il quadro che emerge in questa pagina è abbastanza cupo. Il popolo si comportava male e perciò Dio è intervenuto attraverso i profeti, attraverso un messaggio che ha denunciato e ha cercato di bloccare le ingiustizie. E questo intervento di Dio il verso 5 lo presenta con immagini durissime: quanti si comportavano male « li ho colpiti per mezzo dei profeti, li ho colpiti a morte con le parole della mia bocca »[2]. Attraverso la voce dei profeti e attraverso la sua parola Dio ha voluto cambiare il comportamento del suo popolo: un popolo che offriva sacrifici a Dio, ma erano sacrifici falsi, privi di un amore fedele e costante; il vostro amore – dice Dio attraverso il profeta – « Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce » (v. 4).
Eppure, in questa siuazione che sembra senza una via d’uscita, una strada c’è ed emerge con chiarezza nell’ultimo verso, là dove Dio dice: « poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti ». Non sacrifici offerti a Dio nel tempio; non sacrifici ma “hèsed”, amore, amore a Dio e verso gli umani[3].
Dal libro del profeta Osea (6,3-6)
3 Conosceremo, ci sforzeremo di conoscere il Signore:
la sua venuta è sicura come l’aurora.
Verrà a noi come la pioggia d’autunno,
come la pioggia di primavera che feconda la terra.
4 Che dovrò fare per te, Èfraim,
che dovrò fare per te, Giuda?
Il vostro amore è come una nube del mattino,
come la rugiada che all’alba svanisce.
5 Per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti,
li ho colpiti a morte con le parole della mia bocca
e il mio giudizio sorge come la luce:
6 poiché voglio l’amore e non il sacrificio,
la conoscenza di Dio più degli olocausti.
Parola di Dio.
Salmo
Quest’oggi la liturgia ci propone il salmo 50, un «salmo di Asaf». Asaf, figlio di Levi, era incaricato di dirigere i cantori e di suonare il cembalo mentre l’Arca dell’alleanza entrava in Gerusalemme (1 Cron. 15,17-19). E Davide nominò Asaf capo del servizio divino e dei suonatori. Ad Asaf e alla sua scuola, che fu attiva durante tutta l’epoca regale in Israele, risalgono il salmo 50 – che in parte leggeremo oggi – e i salmi dal 73 all’83 contenuti nel salterio.
Nel salmo 50 è il Signore stesso che prende la parola e si presenta come il Dio dell’Alleanza, il Dio che convoca il popolo colpevole di non aver osservato certi precetti contenuti nel decalogo[4]. Nella prima strofa Dio non rimprovera Israele per i suoi atti di culto: Dio dichiara: «Non ti rimprovero per i tuoi sacrifici, i tuoi olocausti mi stanno sempre davanti» (v. 8).
E, nella seconda strofa, il salmo si sofferma sui sacrifici che gli Israeliti offrono a Dio, la carne dei tori, il sangue dei capri (v. 13). Ma Dio non ha bisogno di queste offerte; egli dichiara: « Se avessi fame, non te lo direi: mio è il mondo e quanto contiene » (v. 12).
Dopo queste dichiarazioni, nella terza strofa Dio dichiara quella che deve essere – per gli Israeliti e per ciascuna e ciascuno di noi – la vera religiosità. Occorre offrire a Dio la « tôdah» la «lode », cioè la contemplazione adorante della volonà divina[5]. E il v. 15 ci presenta un collegamento con il verso 1: A Dio che convoca l’uomo corrisponde l’uomo che, quando si sente stretto dall’angustia, invoca Dio, si rifugia in Dio per essere liberato dal ‘carcere’ della sofferenza.
Quanto a noi, alla fine di ogni strofa, possiamo riprendere, come ritornello, le parole del verso 20:
Chi cammina per la retta via vedrà la salvezza di Dio.
Salmo 50 (versi 1.8. 12-13. 14-15)
1 Salmo di Asaf.
Parla il Signore, il Dio degli dèi,
egli convoca la terra da oriente a occidente:
8 «Non ti rimprovero per i tuoi sacrifici,
i tuoi olocausti mi stanno sempre davanti.
Rit.: Chi cammina per la retta via vedrà la salvezza di Dio.
12 Se avessi fame, non te lo direi:
mio è il mondo e quanto contiene.
13 Mangerò forse la carne dei tori?
Berrò forse il sangue dei capri?
Rit.: Chi cammina per la retta via vedrà la salvezza di Dio.
14 Offri a Dio come sacrificio la lode
e sciogli all’Altissimo i tuoi voti;
15 invocami nel giorno dell’angoscia:
ti libererò e tu mi darai gloria».
Rit.: Chi cammina per la retta via vedrà la salvezza di Dio.
Seconda lettura
Questa domenica, e poi anche nelle domeniche successive, la liturgia ci propone alcune pagine della lettera di Paolo ai Romani.
A Roma, capitale dell’impero romano, c’erano diversi gruppi di minoranze etniche venute dall’Oriente. E tra questi gruppi c’era un gruppo di Ebrei con più di dieci sinagoghe. E all’interno di questo gruppo c’erano anche dei cristiani. Una data importante è l’anno 49: «l’imperatore Claudio scacciò da Roma i Giudei che, costantemente, turbavano l’ordine pubblico su istigazione di Chresto»[6]. Così scrive Svetonio, uno scrittore romano che fa riferimento ai cristiani pensando che sia un ignoto “Cresto” o “Cristo” a fare di loro dei ribelli.
Tra i cristiani che dovettero lasciare Roma, due – Prisca e Aquila – approdarono a Corinto dove incontrarono Paolo (Atti 18,1-3). Ma a Roma rimasero dei cristiani di origine pagana. E Paolo progetta di andare a Roma per annunciare il vangelo anche a loro (Rom 1,14s). Ed è in vista di questo viaggio che Paolo scrive la lettera ai Romani e la affida a Febe, una diaconessa attiva in un porto di Corinto, perché la porti a Roma. E Paolo chiede ai Romani di accogliere bene questa donna che è stata protettrice per lui e anche per molti altri cristiani (cf. Rom 16,1-2)[7].
Di questa lettera oggi ascolteremo una pagina del capitolo 4, dove Paolo presenta Abramo come modello di uomo ‘giusto’, giustificato da Dio in quanto credente. A proposito di Abramo come credente, Paolo sottolinea un dato sconcertante: «Abramo credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (v. 18). Infatti Abramo aveva ricevuto la promessa: «ti ho costituito padre di molti popoli» (Rom 4,17 e Gen 17,5). E « non si indebolì nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il grembo di Sara» (v. 19).
Nelle frasi successive Paolo insiste sulla fede di Abramo e sulla conseguenza: questo suo credere « gli fu accreditato come giustizia » (v. 22). E qui il passivo ha come complemento d’agente Dio stesso: è Dio ad aver considerato e apprezzato come giustizia il modo in cui Abramo ha vissuto la fede. Ma questo “apprezzare” non è una semplice valutazione, è un atto salvifico che Dio stesso compie[8].
Infine, dopo queste considerazioni su Abramo e sul libro della Genesi, negli ultimi tre versetti Paolo tira le sue conclusioni anche per i Romani e per tutti noi, « noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore » (v. 24). E l’ultima frase sottolinea l’iniziativa di Dio presente e operante nella vicenda di Cristo. E qui l’accento è sullo scopo: «Gesù è stato consegnato alla morte per i nostri peccati», cioè per il perdono dei nostri peccati[9], «ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione», perché, quando noi – come Abramo – ci apriamo alla fede, Dio ci giustifichi e ci accolga nelle sue braccia di salvezza.
Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Romani (4,18-25)
Fratelli, 18 Abramo credette, sperando contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: «Così sarà la tua discendenza».
19 Egli non si indebolì nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il grembo di Sara. 20 Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma fu rafforzato dalla fede e diede gloria a Dio, 21 pienamente convinto che quanto (Dio) aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. 22 Ecco perché gli fu accreditato come giustizia. 23 E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato, 24 ma anche per noi, ai quali deve essere accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, 25 il quale è stato consegnato alla morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione.
Parola di Dio.
Alleluia, alleluia.
Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio;
a proclamare ai prigionieri la liberazione (Luca 4,18).
Alleluia
Vangelo
Il Vangelo di oggi è una pagina del capitolo 9 di Matteo. Questo capitolo si apre con Gesù che guarisce un paralitico e gli perdona i suoi peccati. Subito dopo, Gesù vede un uomo seduto al banco delle imposte: è Matteo[10], un pubblicano, un membro odiatissimo di una classe perennemente detestata, quella degli esattori delle imposte[11].
A quest’uomo Gesù «dice: Seguimi! Ed egli, alzatosi, lo seguì». Questa formulazione sorprende: infatti, in un racconto tutto al passato, l’evangelista utilizza il presente «dice» e questo presente sottolinea la duratura validità dell’appello[12]. La chiamata al pubblicano, come la chiamata che Gesù rivolge a ciascuna e a ciascuno di noi, è sempre valida e deve sempre trovarci disponibili a metterla in pratica. Inoltre, sempre in questo versetto, evidente è l’immediata obbedienza del chiamato: «Egli, alzatosi, lo seguì». E questo passo del Vangelo potrebbe essere un cenno alla chiamata ricevuta dall’evangelista[13] e alla sua disponibilità, mentre i versi successivi possono mostrarci come lo stesso autore del vangeli si consideri semplicemente come uno tra i pubblicani e i peccatori perdonati da Gesù[14].
Nel seguito della narrazione, il Vangelo ci presenta Gesù a tavola, Gesù commensale con i discepoli e con i peccatori. E ciò suscita la reazione dei «farisei». E questa parola, che riprende una formulazione aramaica, vuol dire “appartato”, “separato”. E nel racconto del Vangelo, i farisei si comportano proprio così: essi prendono le distanze da Gesù e dai suoi discepoli. Infatti, parlando ai discepoli, essi chiedono: «Come mai mangia, il maestro di voi, insieme ai pubblicani e ai peccatori?». E con l’espressione «maestro di voi» i farisei si distanziano da Gesù e dai discepoli e rafforzano la barricata entro la quale i farisei si racchiudono. Se i discepoli sono stati chiamati dal maestro e lo seguono, questo loro comportamento è contrastato dalla costante critica da parte delle istituzioni religiose d’Israele.[15]
Nel Vangelo, a rispondere ai farisei non sono i discepoli ma Gesù stesso che dice: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati». L’accenno al medico che è necessario per i malati può essere inteso come un’affermazione che si rifà al Siracide che insegnava: «Il medico non deve restare lontano » dal malato (Si 38,12) e da ogni peccatore (Si 38,15). E con queste affermazioni e con tutta la sezione 38,1-15, il Siracide mostrava che il medico è una parte necessaria nel buon piano creativo voluto da Dio[16].
Infine, l’ultimo versetto di questa sezione. Qui, nella prima parte, il Vangelo riprende la traduzione greca del testo di Osea: « misericrdia voglio e non sacrificio »[17], e ciò anche se nell’originale ebraico, al posto di “misericordia” c’è una parola che si può tradurre con “amore”[18].
E, forte di questo messaggio di Osea, Gesù può terminare la sua risposta alla questione posta dai farisei dicendo: « Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». La relazione di Gesù verso i peccatori è la misericordia, misericordia verso coloro che hanno fallito nella loro esistenza peccando.
Dal Vangelo secondo Matteo (9,9-13)
In quel tempo, 9 mentre andava via, Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli dice: «Seguimi!». Ed egli, alzatosi, lo seguì. 10 Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11 Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai mangia, il maestro di voi, insieme ai pubblicani e ai peccatori?».
12 Udito questo, (Gesù) disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13 Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Parola del Signore
Preghiera d’apertura
Tutti noi siamo invitati alla tua mensa, Signore.
Facciamo nostro l’invito a sederci accanto a te insieme ai tuoi discepoli.
E che noi possiamo imparare a guardare con misericordia
e a riconoscere in ognuno di loro un nostro commensale.
Questa è la nostra preghiera.
Sì, perché siamo tutti discepoli
che hanno bisogno di sperimentare e vivere la tua parola consolatrice, Gesù.
Abbiamo tutti bisogno di nutrirci della misericordia di Dio, tuo e nostro Padre,
perché è da questa fonte che scaturisce la nostra salvezza[19].
Preghiera dei fedeli
* Il profeta Osea diceva ai suoi contemporanei: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce». Ma, purtroppo, questa affermazione del profeta vale anche per noi oggi. E pensare che, attraverso il profeta, Dio ci dice: «voglio l’amore e non il sacrificio». Senza l’amore, i nostri sacrifici e gesti rituali sono azioni senza spessore. Per questo ti preghiamo, Gesù: dà consistenza e costanza al nostro amore. Infatti Dio, il Padre, ci domanda solo questo: l’amore. Preghiamo quindi e diciamo:
Ascoltaci, Gesù nostro fratello!
* Anche Asaf, nel salmo, parla dei suoi contemporanei i quali si accontentano di compiere azioni rituali; e ciò invece di impegnarsi nella «lode», cioè nella contemplazione adorante della volontà divina e nell’impegno per metterla in pratica. Che questo salmo possa far nascere in noi l’impegno a mettere in pratica la volontà di Dio. E allora, quando pregheremo nel giorno dell’angoscia, Dio ci libererà e ci darà nuova forza. Preghiamo quindi e diciamo:
Ascoltaci, Gesù nostro fratello!
* Scrivendo ai Romani, Paolo ricorda come Abramo visse: egli «credette, sperando contro ogni speranza». E questo suo credere nella parola di Dio «gli fu accreditato – da Dio – come giustizia». Sì, Dio ha apprezzato la fede di Abramo come impegno per la giustizia. E questo apprezzamento, ci dice Paolo, concerne anche la nostra fede. La nostra preghiera è quindi questa: che possiamo – con fedeltà e gioia – fare un po’ come Abramo: credere, cioè aderire, giorno dopo giorno alla parola del Signore, alla parola che Gesù ci ha comunicato. Preghiamo quindi e diciamo:
Ascoltaci, Gesù nostro fratello!
* Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci presenta – in breve – Matteo. Matteo, quando Gesù gli dice «Seguimi!», subito lo seguì. E ciò anche se, comportandosi così, dovette – come Gesù e gli altri discepoli – subire le critiche dei farisei. Ma seguire Gesù è bello: egli, come un medico, si prende cura di noi, persone fragili e malate; egli si prende cura di noi e, un po’ come aveva fatto Osea, ci invita a scoprire cos’è misericordia, cos’è l’amore, l’amore per Dio ma anche per le nostre sorelle e i nostri fratelli. Preghiamo quindi Gesù e diciamogli:
Ascoltaci, Gesù nostro fratello!
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[1] Cf. E. Zenger, Il libro dei Dodici Profeti, in E. Zenger (ed.), Introduzione all’Antico Testamento, Queriniana, Brescia, 2008, p. 796s.
[2] Per la parola di Dio presentata come un ferro che fa a pezzi e uccide, cf. E. Jacob, Osée, in E. Jacob – C.A. Keller – S. Amsler, Osée, Joël, Amos, Abdias, Jonas, Labor et fides, Genève, 1982, p. 52.
[3] Jacob p. 52.
[4] Cf. D. Scaiola, Salmi in cammino, Edizioni Messaggero, Padova, 2015, p. 78.
[5] Cf. G. Ravasi, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione. Salmi 1-50, Dehoniane, Bologna, 2015, p. 908.
[6] Così scrisse lo storico latino Svetonio nella sua opera Vita di Claudio 25,14.
[7] Cf. la voce Foibe / Febe in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, a cura di H. Balz e G. Schneides, Paideia, Brescia, 2004, col. 1819s.
[8] Cf. H. W. Heidland, Logizomai, in Grande lessico del Nuovo Testamento, fondato da G. Kittel, continuato da G. Friedrich, Vol. VI, Paideia, Brescia, 1970, col. 779.
[9] Così G. Barbaglio, Le lettere di Paolo. Traduzione e commento, Borla, Roma, 1980, p. 287.
[10] Nel racconto parallelo che si legge in Marco e in Luca, questo personaggio si chiama Levi. Si veda Mc 2,13 e Lc 5,27.
[11] Così G. Ravasi nel volume di D. M. Turoldo – G. Ravasi, «Nella tua luce vediamo la luce». Tempo ordinario, solennità del Signore, feste dei Santi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2004, p. 69.
[12] Cf. F. De Carlo, Vangelo secondo Matteo. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline, Milano, 2016, p. 315.
[13] Un secondo cenno all’autobiografia dell’evangelista lo si può intravvedere in Mt 10,3. E’ grazie a questi passi che la tradizione ha potuto vedere in Matteo il redattore del “Vangelo di Matteo”. Ed è così che, al più tardi verso l’anno 100, si è pouto porre come titolo a questo vangelo la formulazione “euaggélion katà Matthaion”, cioè “Vangelo secondo Matteo”. Cf. F. De Carlo, Op. cit., p. 26.
[14] Così A. Mello, Evangile selon Matthieu. Commentaire midrashique et narratif, Cerf, Paris, 1999, p. 174.
[15] Così F. De Carlo, Op. cit., p. 316.
[16] Cf. B.M. Zapff, Jesus Sirach 25-51, Echter Verlag, Stuttgart, 1980, p. 256.
[17] La stessa citazione di Osea tornerà ancora in Mt 12,7.
[18] Per la relazione tra il termine greco e l’ebraico, cf. R. Bultmann, Eleos, in Grande lessico del Nuovo Testamento, fondato da J Kittel, continuato da G. Friedrich, Vol. III, Paideia, Brescia, 1967, col. 403ss.
[19] Questa preghiera riprende le parole di Papa Francesco del 13 aprile 2016. Cf. FRANCESCO, La sorpresa della Fede. Il Vangelo di Matteo letto dal Papa, Castelvecchi, Roma, 2016, p. 98.