Nei deserti della “Terra promessa”
Nei deserti della “Terra promessa”
di Elena Lea Bartolini De Angeli
La Terra di Israele – la “Terra della promessa” – per i suoi due terzi è deserto, in ebraico midbar, termine che designa uno spazio geografico che può presentare paesaggi fra loro molto diversi: può essere una zona desolata e arida, con la presenza di monti, rocce e alture dai colori diversi, oppure caratterizzata da una serie di colline e catene montuose dai colori uniformi, o ancora con oasi collocate in vaste distese pianeggianti o lungo pendii scoscesi. Se la prima impressione è quella dell’aridità, i deserti biblici spesso nascondono nel sottosuolo una notevole ricchezza d’acqua e, nei medesimi, le piogge invernali fanno nascere una vegetazione che nutre le greggi e permette la vita dei nomadi. Il popolo della Bibbia conosce sia il deserto arido che quello ospitale, soprattutto conosce la vita tipica di questo luogo nel quale sperimenta sia la durezza di situazioni estreme che la grandezza di un Dio sempre pronto a soccorrere.
Si può fare un’esperienza significativa di questo luogo entrando in Israele da sud, da Eilat presso il Mar rosso, e percorrendo verso nord le diverse zone del Neghev e del deserto di Giuda alla scoperta di parchi naturali che evocano l’epoca dei Patriarchi, dell’Esodo, dei re e dei profeti; crateri spettacolari che rimandano ai racconti della creazione e suggestive oasi presso il Mar Morto che ricordano i luoghi del Cantico dei Cantici. Rimettendosi poi in ascolto della Parola rivelata e aprendosi al fascino misterioso che il contesto evoca, ci accorge che il cammino nel deserto è sempre provocatorio: può essere duro e difficile, può mettere alla prova in maniera radicale, ma è proprio qui che Dio si è rivelato e il popolo di Israele è diventato il “popolo di Dio” vivendo con Lui una dinamica di tipo sponsale: dal “fidanzamento” segnato dal dono della libertà all’accoglienza della Torah, l’insegnamento divino rivelato, come “patto di nozze” nell’orizzonte del quale realizzare la propria vocazione, ma soprattutto continuando a vivere il deserto come paradigma di un continuo cammino di conversione per “ritornare a Dio” (cf. Os 2,16-25).
Non si può comprendere la santità della Terra di Israele senza fare questa esperienza che è fondamentale per tutta la rivelazione ebraico-cristiana: nel deserto Giovanni Battista ha predicato e invitato alla conversione (cf. Mc 1,1-8), nel deserto Gesù è stato “messo alla prova” (cf. Mc 1,12-13), sempre nel deserto – non a caso – è sorto il monachesimo.
Quando ritorno in questa Terra con gruppi – sia di ebrei che di cristiani – che si misurano con tale realtà, riscopro ogni volta la straordinaria potenza rivelativa che proviene da un silenzio capace di parlare nella profondità del cuore umano, da una apparente aridità che mostra il suo lato fecondo, dalle sorprese naturali che segnano inaspettatamente il cammino: un albero verde, una palma con i datteri presso un corso d’acqua, un fiore in mezzo alla terra arida, un capriolo che si arrampica su un dirupo, un aquila che solca il cielo e ricorda l’amore di Dio che porta il “suo popolo” sulle ali (cf. Es 19,4) come segno di una fedeltà capace di dare la vita (se viene colpita dai cacciatori l’aquila muore ma i piccoli si salvano proprio perché protetti dalle sue ali).
Questo è il deserto in cui Dio si rivela a chi è capace di mettersi in ascolto a partire dalla testimonianza del suo popolo, dal quale provengono sia Gesù che la Chiesa delle origini. Riscopriamolo!
Il Neghev
fotografia di Dino Pirri